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IL PAZIENTE EMERGENTE DEL GRUPPO FAMILIARE
IL GRUPPO FAMILIARE EMERGENTE SOCIALE
1-
Etimologicamente, emergente e ciò che si mostra con evidenza, ciò
che affiora alla superficie. Come l’iceberg che emerge nel mare,
o gli scogli dall’acqua. Emergenza è invece quella situazione
improvvisa, di grave difficoltà o pericolo. Emergente ed emergenza
sono concetti legati etimologicamente essendo questo ultimo l'azione ed
effetto del primo. Psicologicamente indicano che c’è una
quantità di sofferenza che non può essere elaborata provocando
di questo modo una crisi.
Nella clinica psicoterapeutica, emergente è tutto ciò che
il paziente porta al colloquio o in seduta. I messaggi verbali e non verbali,
i sintomi, gli agiti -acting- e la libero-associazione d’idee.
Pichon Riviere, parla della “unita di lavoro” come d’un
movimento di trasformazione dialettica, composta di tre elementi: -esistente,
-interpretazione, -emergente, dove l’esistente é l’emergente
ancora non lavorato, non interpretato.
Il paziente, la persona che soffre, esprime il disaggio e la sofferenza
di tutto il suo gruppo familiare. Ed é lui che, mostrandosi, mettendosi
in evidenza, esprime la crisi del gruppo. Come alla loro volta, il gruppo
familiare, in crisi, mostra, mette in evidenza, una sofferenza e violenza
sociale, prima sotterranea o nascosta, ed adesso resa visibile.
La famiglia è una istituzione e contemporaneamente un gruppo. Un
gruppo è un insieme di persone con un compito comune. Una istituzione
è un insieme di norme, regole, valori e funzioni sociali, con una
funzione specifica. Il concetto di struttura è l’elemento
comune che mette in relazione e che lega l’analisi sia della familia-gruppo
sia della famiglia-istituzione.
Se consideriamo alla società come una struttura totale, o globale
includente, le istituzioni sono strutture incluse o intermedie, che hanno
tra di loro un legame d’interdipendenza e d’interinfluenza.
Le strutture svolgono tra di loro una relazione sia a livello orizzontale,
sia verticale. Questa interdipendenza e interinfluenza, sarà ciò
che determina dando senso e significato al comportamento della struttura,
e delle parti che la compongono.
Sarà così compito della psicologia sociale, analizzare il
significato degli comportamenti umani all'interno di ogni struttura.
2-
In questo lavoro presenterò due casi clinici, due miei pazienti.
R. di 29 anni, maschio, tossicodipendente durante dieci anni, e K. di
21 anni, femmina.
R. appartiene ad una famiglia operaia, padre muratore, madre casalinga,
con sette figli. R. è il figlio del mezzo nella fratia. Il padre
si uccide, a seguito di una grave malattia, enfisema polmonare, e della
perdita del lavoro come conseguenza, quando lui aveva undici anni. In
quel momento il fratello maggiore ha 18 anni, il minore 6.
K. una ragazza di 21 anni, appartiene ad una famiglia benestante, della
piccola borghesia veneta. Abita con la madre di 50 anni, e una sorella
di 17 anni. Il padre si uccide quando K. aveva 18 anni. Già direttore
di banca, lascia questo lavoro per fare l’operatore di borsa. Nell'anno
1993, con il crollo della borsa, e nel marco di Tangentopolis, il padre
si uccide. La madre aveva un'attività commerciale in proprio e
le due figlie erano studentesse.
In tutti i due, la morte violenta del padre, e il significato di quella
morte, inciderà nella dinamica gruppale, dove il paziente, emergente,
esprimerà la sofferenza di tutti, e attraverso la sua crisi, modificherà
non solo se steso, sino a tutto il gruppo familiare. Il gruppo familiare,
come emergente sociale, mostra, mette in evidenza, una violenza sotterranea
e nascosta, della quale, la famiglia e contemporaneamente vittima e vittimaria,
dove la solitudine e la mancanza di solidarietà sociale e a mio
avviso e ancora una volta, l’emergente principale.
3-
Conosco a R. verso la fine dell’anno 93. Viene indirizzato ad uno
dei gruppi psicoterapeutici che coordino in una Comunità Terapeutica,
da un'altra sede della stesa, dove era stato residente per 4 mesi. Mi
dice subito che è stato trasferito per i problemi che causava l'amicizia
con una ragazza, anche lei residente, e che, secondo lo staff, impediva
a tutti i due la crescita e il lavoro gruppale. “Ho provato a staccarmi,
però non potevo”. R. aveva ricreato con questa ragazza, un
rapporto quasi-simbiotico, ripetizione di due precedenti legami con il
femminile.: il primo con la sorella di 8 anni, subito dopo il suicidio
del padre, e un legame di coppia con una coetanea, dai 14 ai 15 anni.
Poi viene la eroina, sua “compagna” per ben 10 anni.
In questo primo incontro racconta al gruppo che “dal 90 ad adesso,
sono stato sempre in carcere” e che dopo dieci anni di tossicodipendenza,
viene in comunità, “non per evadere del carcere, perché
al carcere mi adeguo, sino perché quella vita, spaccio, delinquenza,
ecc. non mi dava più niente”.
Le domando come è il rapporto con la sua famiglia. Me risponde:
”Il dialogo con i miei si è perso di brutto. Solo con mia
sorella si mantiene, abitavo con lei e mia madre. A casa, ricevevo bastonate
soltanto, soprattutto de mio fratello maggiore, oggi sposato”.
Dopo un lungo silenzio, continua “Mio padre è morto nell'anno
81, in modo brutto”, e con angoscia continua dicendo in dialetto,
“se ga atacà, se ga impicà!, Avevo 11 anni”.
Il fratello di 18 anni, sollecitato dalla madre, prenderà da quel
momento, il ruolo del padre diventando “il capo famiglia”
posto e ruolo che R. non accetta. Così comincia un lungo rapporto
di violenza e rifiuto tra di loro. “In più, io che non volevo
studiare, - si trattava di finire le scuole dell’obbligo-, non faceva
altro che darmi botte. In famiglia, la morte de mio padre è stato
un trauma”, aggiunge, “e si evitava di parlare di quanto era
accaduto”. R. è il figlio del mezzo della fratia. La morte
del padre traumatizza a tutti, pero è lui l’emergente che
“salta”, mostrando cosi il disaggio di tutti.
“Essere impiccati è umiliante”, le dico. Dopo un silenzio
mi risponde, “Lui avrà scelto questa morte, forze per la
umiliazione che sentiva, causata dalla malattia, - enfisema polmonare-
e di non poter continuare a mantenere la sua famiglia, essendo rimasto
senza lavoro. Per un muratore, la salute è un bene necessario per
il lavoro”.
R. è molto colpito, pensa, riflette, forse per la prima volta può
cominciare a riconciliarsi con suo padre, e con la sua famiglia. R., il
bambino di 11 anni, ritorna della scuola, e si trova che suo padre si
è suicidato, pero non se ne parla, e nemmeno le dicono come è
successo, perché i bambini non capiscono.
Si crea cosi un malinteso, “perché non mi dicono niente,
e solo a me?”, si domandò per anni. Arrabbiato con tutto
e con tutti, si ribella contro la madre, che in più si allontana
affettivamente anche lei perché in lutto. Diventa “testardo,
scontroso” con tutti, e particolarmente con il fratello maggiore,
che al prendere il posto del padre, diventa fratello-padrone. Resta così
“attaccato” ad una sorella di 8 anni, che diventa “una
parte di me e con la quale non mi sono mai mollà”. Questo
rapporto di attaccamento dipendente, si ripeterà con la prima ragazza
ai 15 anni, che finirà un anno dopo, e dai 16 in poi, con l'eroina.
I legami dipendenti che stabilisce R, le permettono di mantenere una dissociazione
difensiva, l’odio per la madre e il fratello, e difendersi delle
situazioni nuove, sconosciute, per lui ostili, pure nella comunità,
perché anche questa, vuole che lui studi, finisca le scuole, cresca.
R, in questo primo incontro, ha 26 anni, però mi appare come un
ragazzo di sedici. Se lo dico e lui mi risponde: “Forse è
l'età nella quale mi sono fermato, è l'età nella
quale ho cominciato a farmi, e da quell'epoca, non ho più voluto
crescere”.
Nell'incontro successivo del gruppo c’è L., anche lui teme
il passo del tempo, associato ad una sorella morta, e un lutto patologico
in famiglia. Porta un orologio della sorella morta. Orologio permette
misurare il passo del tempo, in confronto dell'eternità della morte,
la eternità del tempo che non passa mai. Il mondo della fantasia,
della droga, un mondo irreale, un mondo proprio e fantastico, dove il
tempo non passa mai. Questa è la loro non crescita. R., dice. “temo
la solitudine”, pero in realtà la ama. Ciò che è
veramente temuto è l’incontro con l’altro, e il primo
altro con il quale ritrovarsi in questo caso, è la madre, odiata
per anni. Piangere, fare il lutto insieme, trovarsi, comunicare veramente,
dicendosi le cose non dette o mai dette perdendo così la innocenza,
come Adamo, che teme e pure desidera la mela della conoscenza. Anche in
R. il non voler sapere significa il timore d'uscire del giardino dell'infanzia,
della protezione, o della protezione non avuta, e perciò, ancora
aspettata. Cosi R. si sta preparando per sapere. Vuole sapere perché
quando suo padre si è impiccato, soltanto a lui, dei sette fratelli,
non le è stato detto, -cosi lui crede: “Perché, sono
incapace di capire?” si domanda.
Siamo nel mese di dicembre, due mesi dopo la prima seduta, la domenica
precedente, c’è stata la visita dei familiari in comunità.
Per R. la visita è stata produttiva, dice, “Ho detto a mia
madre cose che non gli avevo mai detto in vita mia. Perché non
ero stato informato come il resto dei fratelli del modo nel quale mio
padre era morto?” Infatti, “mia madre non mi credeva in grado
di capire”. Pero R. ha potuto chiarire il malinteso, “non
solo a lui non era stato detto, bensì anche agli altri fratelli”,
eccetto il maggiore, così odiato. Il non detto, il malinteso, ed
infine, il segreto a voci, giacche tutti sapevano però per vergogna
non si parlava, può così finalmente chiarirsi, acquistando
in questo modo, R. un nuovo e mai esperimentato benessere.
4-
La vita nella famiglia F è diventata un inferno, continui litigi,
urla, grida, incomprensioni...K. è la paziente designata dalla
zia materna - e poi saprò anche dalla madre, -che interviene chiedendomi
un aiuto. La zia mi telefona, con una carica molto angosciosa-, dopo ascoltarla,
suggerisco che sia K. a telefonare, cosa che effettivamente fa.
Vedo a K due volte nel mio studio privato, da sola, e poi per altre tre
volte con la famiglia, madre e sorella. Due anni fa, nel 93, il padre,
consulente di borsa, si suicidò, a seguito del crollo della borsa.,
“perdendo clienti e danaro, tutto è crollato”. Nell'estate
si ammalò di mononucleosi, a settembre si suicida, in piena notte.
“Si brucia vivo nella sua macchina”, Il fuoco, che non lascia
traccia, però che tutto purifica, è capito dalla moglie
come un messaggio: “Non è per vigliaccheria che lui si suicida,
sino perché non era più utile alla famiglia”.
La famiglia perde tutto, la casa di proprietà, il negozio materno,
indebitandosi la moglie per tutta la vita. “Mia madre è piena
di problemi”, mi dice K. nel primo incontro, “ed io, bene
o male, sono al posto de mio padre”. In questo momento la famiglia
sta traslocando, della villa ad un piccolo appartamento in affitto, e
il trasloco è a carico di K. La madre dopo il crollo finanziario,
trova un lavoro di collaboratrice domestica, e adesso è impiegata
in un negozio. K. dalla morte del padre, lavora metà giornata di
baby-sitter. Sente però che la madre delega in lei tutti gli aspetti
pratici della vita, ruolo che K. accetta, perché si sente importante,
brava come il padre idealizzato da sempre, permettendole di uscire da
una cronica depressione, però che, contemporaneamente la carica
di rabbia tensione, ostilità, portandola alla ribellione del ruolo
assegnato. Così la casa diventa un campo di battaglia.
Nel primo incontro del gruppo familiare emerge chiaramente che nessuno
della famiglia ha mai pianto per la morte del padre-marito. Assorti nei
problemi pratici, hanno continuato “come se niente fosse successo”.
La negazione maniacale del lutto era la difesa nella quale si erano rifugiate.
K. accusa alla madre che va in discoteca per evadere, e lei si difende
dicendo che “anche io ho bisogno di liberare la mia mente”.
Così K., investita del ruolo paterno, tiranneggia a tutta la famiglia,
giacché questo padre, idealizzato e onnipotente, che tutto faceva
in famiglia, pulizie, spesa, ecc., oltre al lavoro di operatore finanziario,
le da un potere e una forza mai avuta in passato. Anche lui, prima, tiranneggiava
alla moglie, sottilmente. “Da una parte tutto faceva lui”,
dice la moglie, “poi m'innalzava, mi adorava come ad una madonna,
però, non potevo parlare, non potevo dire niente, Cosi per 20 anni
di matrimonio!”.
La madre aggiunge: “In questi due anni, non ho mai potuto piangere,
dovevo reagire, perché sino loro- le figlie- andavano in crisi”.
K. si sente l'eroina della situazione, la più importante, “se
non fosse per me”, dice con sufficienza, “saremmo in alto
mare”. La madre risponde a K. dicendole che, in realtà, in
questi anni, viveva in letargo, e che, invece adesso, che ha trovato "il
suo ruolo, non si sente più inutile".
K. ribatte energicamente, quasi urlando: “Il ruolo lo voglio per
me, no per spronare due lumache!”.
La madre esprime il suo dolore, e a ciò K. reagisce con tenerezza.
Avvicinandosi le dice, “se sono stata cosi aggressiva e perché
non mi hai mai dimostrato che mi volevi bene, mai un bacio, mai una carezza.
Papà mi coccolava invece, e te mai...”. E avvicinandosi,
le da un bacio dicendole. “Quanto ti voglio bene mamma!”.
Madre e figlia riescono a riconciliarsi, c’è una pacificazione,
e una richiesta di K. di recuperare il ruolo di figlia, contando con la
comprensione, l’affetto e l’approvazione della madre.
La madre confessa che ha molta difficoltà ad esprimere i sentimenti:
“mi hanno insegnato a reprimerli”, esclama, “Che vita
inutile ho avuto, sempre annullandomi, solo pensare ad essere utile agli
altri!” rivolgendosi a me dice, “io sono cattolica osservante,
il Vangelo dice, annulla te stesa per gli altri”. Intervengo affermando
che il Vangelo in realtà dice.: Ama gli altri come te stesso.
K. si arrabbia ed esclama: “Dio del cavolo... chiedere di soffrire,
... E questa è la religione...!”, abbracciandosi, piangono
tutte e due.
Lentamente cominciano tutte due a rivedere il rapporto interno con il
padre e marito onnipotente.
Nel terzo e ultimo incontro di gruppo familiare, il trasloco è
finito: riappare la onnipotenza di K., che sente ancora di dover fare
tutto a casa, criticando aspramente alla madre, perché fuma in
casa, spende soldi senza la sua approvazione, ed ha come lei una amica
piena di problemi (una specie di follie a deux). K. sta lottando per lasciare
il ruolo che le è stato depositato.
Interpreto allora al gruppo familiare che se K. prende il ruolo del padre,
il gruppo non può e non ha bisogno di fare il lutto.
“Ecco il nostro problema!", esclama K., "Lo abbiamo trovato”.
Continuerò ancora lavorando individualmente con K. per circa due
mesi: la madre invece, inizierà anche lei una psicoterapia individuale
con una mia collega.
In questi due mesi, K. che aveva la maturità classica più
un corso di computazione, trova un lavoro come impiegata a tempo pieno.
Sostiene gli esami per la patente di guida con successo, risolve problemi
di rapporto con la famiglia del fidanzato, e con il fidanzato steso, fino
allora molto conflittuali. Gli cambiamenti si sono cosi accelerati, si
è sbloccata una situazione che in parte era ferma da due anni.
In una delle ultime sedute mi dice: “è venuto il curatore
fallimentare. Per la prima volta mi sono arrabbiata con mio padre: in
quel momento l'ho odiato, perché non era giusto e perché
non lo senivto vicino”.
Infine, fa un sogno dove lei ha una bambina: “Ero incinta, senza
però il pancione e senza sofferenza. Ho partorito senza dolore
una bambina. L'ho presa in braccio con molta dolcezza. Strano questo sogno”,
commenta lei stesa. “Una bambina adesso sarebbe un problema. Però
nel sogno ero contenta, felice e tranquilla”. Interpreto che questa
bambina esprime in realtà la sua rinascita, e la rielaborazione
del suo rapporto con la madre, che era stato per lunghi anni, molto conflittuale.
Lei sta partorendo se stesa, e un nuovo rapporto con la madre e con il
mondo, al quale non odia più né invidia più con l'intensità
precedente.
5-
Ho confrontato due famiglie con una realtà sociale molto diversa,
pero con aspetti simili o comuni. Il rapporto di potere legato al lavoro
e al guadagno da alla figura paterna un prestigio e onnipotenza che si
trasforma in impotenza quando viene a mancare, portando alla depressione
e al suicidio. Il rapporto potere-sottomissione, che si gioca all'interno
delle diverse strutture sociali, se ripete all'interno della famiglia.
Il suicidio del padre risponde, in tutti i due casi, all'incapacità
di continuare con le responsabilità familiari e di poter fare i
conti con la propria sottomissione. Tutti i due genitori esecutano una
condanna contro se stessi, sono contemporaneamente vittima e vittimario.
L’impotenza generata dalla perdita del potere-lavoro (non essendo
consapevoli della loro sottomissione - l’altra faccia della medaglia
del potere), impedisce trovare una nuova dinamica dei ruoli, una ricollocazione
all’interno della famiglia senza arrivare all’autodistruzione.
Così viene riproposto al figlio maggiore il ruolo di fratello-padrone.
Nei figli, i miei pazienti, nessuno sente di poter arrabbiarsi con il
padre assente, per l’abbandono sofferto. Perciò, dove va
l’odio sentito inconsciamente? Nel caso di R. l’odio è
proiettato nella madre, nel fratello maggiore, e in parte, contro se stesso.
Nel caso di K. contro la madre, la sorella, e infine contro tutto il mondo.
Tutti i due si fermano nella crescita: R. resta “attaccato”
ai suoi sedici anni, iniziando una lunga carriera di tossicodipendenza
e delinquenziale. K. si ferma ai suoi diciotto anni, non riesce a lavorare
con la sua qualifica professionale, nè ad avere la autonomia economica
e affettiva dalla famiglia. Il ruolo depositato dello sostituto paterno,
la manteneva bloccata in un posto che no le corrispondeva, che non era
il suo.
Tra le due famiglie, c’è una importante differenza. La famiglia
di R. e stata abbandonata a se stesa, non conta con aiuti, nè materiali,
nè psicologici. La famiglia di K., invece, ha la solidarietà
della famiglia materna, che è presente, sia materialmente, sia
affettiva e psicologicamente. Ha più risorse. L’equilibrio
familiare distrutto dal suicidio del padre, si ristabilisce dopo due anni
nel caso di K., invece, R. deve aspettare per molti anni.
Ci domandiamo allora se non c’è pure una responsabilità
sociale? C’è un abbandono sociale che si fa evidente nei
momenti di crisi, mostrando cosi, quando la famiglia diventa emergente,
una violenza sotterranea e nascosta, ripetizione della dinamica autorità-potere-sottomissione,
violenza coperta “in tempi di pace” con una patina di falso
benessere e di consumismo.