Maria Gabriella Sartori, psicologa - psicoterapeuta

 

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TOSSICODIPENDENZA E DIRITTI UMANI
 

I tossicodipendenti di eroina in Italia si calcolano attorno a 500.000
Di questi circa 76.000 sono seguiti nei centri pubblici o privati.
Per overdose muoiono quattro tossicodipendenti per giorno.
L’età media nella quale si comincia con il “buco di eroina” è tra i 14-15 anni oppure tra i 18-20 anni.
Fino all’anno 1970 in Italia non c’era nessun eroinomane.
Sempre nel 1970 arriva a Roma il primo carico di erina.
Tra gli anni 1974-1975 si verifica il fenomeno della diffusione massiva, per arrivare verso la fine dell’anno 1975 a circa 20.000 eroinomani in Italia.

Presenterò in questo lavoro due pazienti, due ragazzi da me seguiti in psicoterapia di gruppo, presso una C.T., ai quali, durante il loro ricovero che si prolunga tra i 18 e i 24 mesi di residenza, vedo una volta la settimana.

A.
Giovanni è un ragazzo veneto di 23 anni, ma sembra molto di più, forse 30-33 anni. Di bassa statura, i suoi capelli cominciano a mancare. Il suo discorso è in contrasto con il suo aspetto, per momenti dolce.
Egli proviene da un’altra Comunità Terapeutica, che ha lasciato dopo un anno, “proprio quando ho cominciato a parlare dei problemi che avevo con mia madre”. E’ il secondo di tre fratelli, ha una sorella di 24 anni, già sposata e con figli, e un fratello di 18 anni.
In questa prima seduta racconta nel gruppo che è stato in collegio fino alla 5° elementare “perchè ne combinavo di tutti i colori”. Due anni delle scuole medie, le fa pure lontano da casa sua: “a 14 anni mia madre mi manda a lavorare in Germania, perchè avevo iniziato a fumare hascisc, frequentando pure strane compagnie. Ero ribelle e distruttivo – continua a dirci. Mio padre è morto in un incidente di macchina quando avevo 9 anni, era autista di corriere. In quel momento i miei si stavano separando. Già un mese prima mia madre aveva a sua volta fatto un incidente ed era a letto con una gamba rotta.”.
La madre, una donna sarda, proveniente da una umile famiglia contadina, emigra al Nord d’Italia a 16 anni, in cerca di lavoro, era la quinta di nove fratelli. A Torino conosce l’uomo che diventa suo marito, a 17 anni ha la prima figlia, subito dopo nasce Giovanni, il padre ha 25 anni. Poi si trasferiscono nel Veneto.
“Odio a mia madre perché mi ha mandato in collegio. La odio pure perché quando avevo otto anni lei aveva un amante, e mi portava agli incontri con lui. Poi mi faceva dire a mio padre che eravamo usciti solo noi due a mangiare la pizza”.
Questa situazione, è molto dolorosa, perchè mette il bambino in conflitto di lealtà tra i genitori: un figlio ama tutti e due i genitori, e ha bisogno dell’amore di tutti e due. Apparentemente il profondo rancore di Giovanni verso la madre è giustificato da questo fatto, aggravato poi dalla morte del padre. La complicità richiesta dalla madre quando aveva 8 anni, se la rimprovera ancora oggi, la aggredisco ogni volta, mettendola contro il muro”. Lei gli chiede scusa, si mette a piangere, però il figlio non la perdona, “anche se dentro di me provo tenerezza quando piange”- ci confida.

Giovanni diventa a 14 anni un piccolo ribelle, un teppista. Ruba, rompe oggetti nella strada, fuma hascisc. Poco dopo inizia con la eroina, seguendo lo zio materno, anche lui eroinomane. La madre che vuole aiutarlo, però non sa come, per allontanarlo dalle cattive influenze e brutte compagnie trova come unica soluzione mandarlo a lavorare in Germania, presso una sua amica. Quetso si converte in un altro motivo di rimprovero e rancore verso la madre.
L’eroina diventa la medicina magica e onnipotente che “aiuta” a superare, falsamente, tutti i problemi, e riesce ad attutire tutti i dolori.
Sono passati 15 anni dalla morte del padre, però Giovanni non ha ancora potuto fare il lutto per lui: “non ho mai pianto”. Mantiene vivo il suo ricordo dentro di sé, come una figura buona e protettiva, provando, invece, “astio, odio e rancore” verso la madre. Sente però contemporaneamente il bisogno di lei, della sua presenza, perché “è stata poco presente nella mia vita”.
La dissociazione tra un padre buono e perfetto, però assente, per il quale non si è pianto né potuto fare il lutto, e una madre cattiva, addolorata e semipresente, si mantiene per anni. Il dolore che provoca questa frattura interna sarà tenuto artificialmente sotto controllo con l’uso dell’eroina.
Due mesi dopo, Giovanni, preoccupato per la prossima visita della madre alla Comunità, interviene molto teso e pensieroso. Riprendendo precedenti indicazioni fatte da me nel gruppo, dice: “Non riesco né a perdonare mia madre, né a piangere mio padre morto. Vorrei potere parlare con Lei in un altro modo, non più come facevo sempre nel passato, accusandola e aggredendola”, portandola così alla chiusura difensiva. Gli chiedo allora se questo rancore per la madre non ha altri motivi. Nemmeno la sua aggressività, come la sua trasgressiva e distruttiva ribellione si spiegano, secondo me, dai fatti finora da Lui raccontati.
Infatti – mi risponde – la mia nonna paterna ha stimolato in me questo intenso odio verso mia madre, colpevolizzandola della morte di mio padre. La mia nonna è del 1907, ha avuto 7 figli, tutti sono morti: mio padre a 36 anni, per l’incidente di macchina, una zia per tumore e cinque zii per alcoolismo! Tutti loro pure molto giovani.”.

La nonna paterna è un chiaro esempio di non-elaborazione del lutto. Lutto patologico o espulso, dove la persona amata, suo figlio, non è pianto. Il dolore, la rabbia, l’ostilità, l’odio sono proiettati, espulsi fuori, nell’altro. In questo caso, deposita il dolore nella nuora, e impedisce al nipote, Giovanni, di far il lutto per suo padre. Nessuno dei due può piangere la persona amata, mantenendo in questo modo vivo il ricordo dentro di sé. Il patologico è sia mantenere i morti in vita, sia caricare la madre di Giovanni di colpa persecutoria: “è morto mio figlio per colpa sua”. La colpa persecutoria è pure depositata in Giovanni. “Ogni volta che, da piccolo, andavo a trovare la nonna, già succedeva, mi diceva:ritorna presto, altrimenti mi trovi morta. Io, per la verità, vado poco a trovarla, perché mi fa sentire a disagio”. Il metamessaggio della nonna sarebbe: “Se non vieni a trovarmi presto, morirò, e tua sarà la colpa”, provocandogli così ansia e colpa persecutoria.
Intervengo (anche io sento in questo momento disagio dentro di me): “Lei non si è mai arrabbiato invece con la nonna paterna? Non le hai mai chiesto: Come mai nonna tutti i tuoi figli sono morti così giovani? Non te lo sei mai domandata?”
Ci domandiamo noi: perchè questa nonna, esqizofrenizante, non ha potuto insegnare a nessuno dei suoi setta figli a curarsi e mantenere la salute e la vita? O sarà che i 7 figli hanno trovato nella morte l’unico modo di separarsi dal legame interno con la madre?
Sappiamo che l’alcool è un ansiolitico e un antidepressivo, che il tumore ha una componente psicosomatica, che gli incidenti mortali sono in realtà suicidi nascosti o coperti. Il tumore è una folle riproduzione cellulare, espressione della frattura d’un equilibrio psicosomatico: la persona, anziché impazzire, fa un tumore. Anche l’eroina è un antidepressivo e un ansiolitico. Pure Giovanni metteva la sua vita a rischio con la tossicodipendenza.
Non sappiamo cosa è successo nella storia infantile della nonna. Molto probabilmente Lei stessa non avrà potuto piangere una persona molto amata e significativa. Il padre forse?
Nella seduta successiva Giovanni ci dice: “Sono stato molto male in questa settimana; ho pianto molto per mio padre. Adesso ho due persone da perdonare: mia madre, per il suo rapporto extraconiugale, e mio padre! Mia madre mi diceva che aveva un figlio di due anni meno di me, cosa che io non ho mai voluto credere, ne accettare. Mia nonna, che lo presentava come un santo, davatutta la colpa a mia madre”. In questa seduta riconosce: “Perfino la colpevolizzava della morte del figlio. Io non credevo a mia madre, non volevo sapere la verità, ed ogni volta la mettevo contro il muro dicendole, accusandola: Te avevi un altro!”.
Giovanni divideva la coppia in “buoni e cattivi”, a conseguenza del vecchio rancore provocato dalle bugie dette dalla madre quando aveva 8 anni. Questa divisione, aggravata dalla perdita reale del padre a 9 anni, e da sempre stimolata dalla nonna, gli impediva di elaborare il lutto per il padre e di ristabilire un legame interno, più sano, con lui: non più santo, bensì un uomo. Gli impediva soprattutto di crescere: “Se Lei non accetta suo padre come uomo, le dico, come fa, Lei stesso, a sua volta, a diventare un uomo? È così terribile che suo padre sia un uomo, non un santo?”.
La eroina, presa da lui per unghi anni, agiva come antidepressivo, attuiva il dolore, lo “aiutava” a non vedere, a non voler sapere, e a tramandare i problemi non risolti d’una generazione alla successiva.
In una psicoterapia con orientamento psicoanalitico dobbiamo accompagnare la tristezza e il dolore del paziente, non sopprimerlo con il farmaco. Tanto il farmaco antidepressivo, come la droga sopprimono artificialmente il dolore. Una volta passato l’effetto del farmaco, il dolore ritorna in tutta la sua intensità. Il lutto va accompagnato sia dal terapeuta sia dal gruppo, e va acccettato dal paziente, per la sua elaborazione. Abbiamo visto che, in questa famiglia, il lutto patologico è il filo conduttore per tre generazioni. Quello che non è risolto in una generazione, si tramanda alla successiva, che, al non potere elaborare i conflitti, li ripete.
Questa nonna esquizofrenica, che da una parte da la vita (sette figli), e dall’altra la toglie (al non insegnare a difenderla e a mantenerla), fa pensare ad una Società, la nostra. La esqizofrenia sociale si evidenzia quando da una parte si migliora a livello di vita della popolazione (cura della saluter, servizi assistenziali, ecc...); mentre dall’altra se la toglie, con la diffusione, da oltre 25 anni dell’eroina fra le nuove generazioni.

Pensare o dire che la eroina è conseguenza della libertà e del benessere, è, a mio parere, una analisi superficiale e profondamente irresponsabile. Cos’è la Libertà senza responsabilità? Non diventa forse una giustificazione per la distruzione?

B.
Massimo ha 21 anni, magro e snello, ha il corpo di un atleta. Usa il fazzoletto in testa, come gli zingari o i pirati, e porta un solo orecchino. In questo primo incontro il suo modo di parlare, di proporsi, mi provoca disagio e rifiuto: superficiale, seduttore, menefreghista. “Uno psicopatico” penso. Verso la fine della seduta invece, le sue difese cominciano a smontarsie vedo che dietro l’apparente menefreghismo, si nasconde un ragazzo intelligente, sensibile, con molta paura del dolore e della sofferenza.
La storia di Massimo mi colpisce: il più piccolo di 5 fratelli (tre sorelle e due maschi), è stato eccessivamente protetto e coccolato da tutti, anche dal padre, “una persona molto debole”, commenta. La madre era l’unica che metteva un po’ di limiti in famiglia, che diceva no. Finché soccombe e perde la sua autorità, sopraffattta da tutti, dalla permanente difesa a favore di Massimo.
Quando Massimo ha due anni, il padre sofre un grave incidente sul lavoro, che lo costringe a restare a casa, con un handicap (la gamba resta più corta). I ruoli della famiglia si invertono da quel momento: Il padre farà il “casalingo” e la madre andrà a lavorare, trovando occupazione presso un ristorante (cuoca) in una località turistica.
Così da quando Massimo ha due anni, il padre resta a casa a tempo pieno, a fare da madre, mentre la madre fa da pare. Con gli anni questo implica, per il piccolo Masssimo, una confusione dei ruoli e della sua identità sessuale, alla quale si aggrega la debolezza psicologica del padre e la permissività dell’ambiente familiare. Tutto gli era concesso e permesso, essendo il più piccolo diventa il “poverino”. L’angoscia provocata dalla confusione dell’identità sessuale e l’assenza di limiti, lo accompagnerà per anni.
Chi sono io? Un maschio, una femmina? Domanda che diventa irruente nella prima adolescenza. A 14-15 anni, comincia a “fumare” le cosidette “droghe leggere”. Trova una ragazza. Un giorno che aveva “fumato”, guidando la moto, vanno cotro un camion: “Lei è rimasta secca”, racconta con freddezza e apparente superficialità. Da quel momento comincia a drogarsi con eroina, sempre di più: “...arrivando all’esaurimento nervoso. Per pagarmi la droga ho cominciato a vendere, divento spacciatore, facevo tanti soldi”. Come succede con quasi tutti i tossicodipendenti che, per pagarsi la droga, diventano mano d’opera gratuita della mafia.
Nelle sedute successive, Massimo racconta della sua attività sportiva, la sua parte migliore. A 12 anni aveva cominciato a fare atletismo, diventando in poco tempo una giovane promessa a livello nazionale. L’incorrettezza dell’istruttore nei suoi confronti, uniti alla sua poca tolleranza alle frustrazioni, lo porta all’abbandono di questa attività. Questo insieme di fattori lo incitano al “fumo”.
“Tutto ho avuto nella vita, niente mi è mancato”, confida al gruppo: ha soltanto 21 anni d’età. “Adesso mi aspetto di poter dire NO alla droga. Droga che porta alla morte”.
Abbiamo lavorato assieme per circa due anni. “Un ragazzo lucido e brillante – ho pensato più volte di lui – poteva essere una promessa dell’atletismo italiano”.
In una delle untime sedute (nel 1994), Massimo dirà nel gruppo: “Ieri ho visto il Telegiornale. Era arrivato a Genova un translatantico carico d’eroina. Perché abbiamo tutta questa falsità in Italia?” si domanda. Se il governo lo volesse, se i politici lo volessero, quel translatantico stracarico d’eroina lo potevano fermare prima in alto mare e mandarlo indietro. Perché non si fa? Perché ci vogliono, a noi giovani, così drogati?A chi conviene che noi giovani, ci droghiamo?”. Anche Massimo, due anni fa, era falso e superficiale. Oggi invece si domanda perché. Questa domanda, che un giovane ex-tossicodipendente ha fatto nel gruppo psicoterapeutico, io la rivolgo a voi, a quetso gruppo.
Pensiamo insieme alla risposta.
Ritenere che il problema della tossicodipendenza sia solo un problema della famiglia, significa falsificare la comprensione del fenomeno. La domanda: Perché si offre la droga ai giovani? Implica analizzare le responsabilità individuali, familiari, e sociali del fenomeno. Significa capire la relazione fra il consumo di droga e il consumismo in generale. La mafia dell’eroina è una multinazionale.
Non confondiamo la libertà, nostra e dei nostri figli, libertà intesa come responsabilità e consapevolezza, con la falsa libertà voluta dalle multinazionali.
La droga nega il diritto alla vita, difendere la vita dall’aggressione delle droghe è una questione di diritti umani.